Il cinese Yan rompe l’omertà: sfruttato dai miei connazionali

pratoda Corriere.it

Una parola, due, la bocca che trema, la gola secca per la tensione. Minuti di pausa e sudore. Poi Yan il clandestino ha iniziato a parlare. Si è alzato dalla sedia e in cinese al traduttore ha raccontato quei giorni terribili di sfruttamento nella fabbrica fantasma gestita da un gruppo di connazionali: diciotto ore al giorno di lavoro in nero, dal lunedì alla domenica, dalle 7 del mattino sino all’una di notte, per circa un euro all’ora. E poi sei ore di sonno in luridi giacigli, sempre nel laboratorio prigione.
Si è pure infortunato, Yan, quando sfinito, è caduto sui macchinari del laboratorio alla periferia di Prato rimanendo gravemente ustionato. I suoi compagni, di notte, l’hanno lasciato davanti al pronto soccorso e i medici l’hanno salvato per miracolo. Ed è stata la sua salvezza perché quella terribile avventura gli ha dato la forza, per la prima volta nella storia della tormentata immigrazione della città toscana, di presentarsi all’Ufficio immigrazione del Comune di Prato e nonostante fosse un «lavoratore invisibile» denunciare lo sfruttamento e rompere quel muro di omertà che da anni rende impenetrabile la Chinatown di Prato, oltre 30 mila cinesi, e un nero che difficilmente si riesce a quantificare. Lo hanno isolato, scomunicato, minacciato.

Ma Yan si è fidato di un italiano, Giorgio Silli, l’assessore all’Integrazione, non si è fermato e adesso è in salvo. Grazie al lavoro dei servizi sociali del Comune, della questura e della procura di Prato, vive in un’altra città. È stato inserito in un programma «anti-tratta» che cerca di combattere la schiavitù del lavoro nero e ha vinto la sua battaglia. Ha un lavoro e come prevede la legge ha ottenuto un regolare permesso di soggiorno.
I suoi aguzzini, tutti connazionali, sono già stati individuati e la procura di Prato ha aperto un’inchiesta per sfruttamento dei lavoratori clandestini, ma anche per lesioni e riduzione in stato di schiavitù.
«Ho visto tanti operai che lavoravano nelle mie stesse condizioni», ha raccontato l’uomo agli investigatori che adesso cercano di individuare quegli sfruttati. «Anche loro hanno da raccontarci anni di soprusi – dicono in questura a Prato – e la sensazione è che adesso qualcosa si sia infranto in quel muro invalicabile di silenzio».

Yan è arrivato grazie a un’organizzazione clandestina gestita dalla mafia. «Mi avevano detto che se avessi avuto forza, coraggio e fossi stato ubbidiente – ha raccontato – avrei potuto cambiare la mia vita e quella dei miei familiari». Invece sono arrivate le catene, le minacce e la paura d’essere entrato in un labirinto senza uscita. «Non sapevo neppure una parola in italiano, non conoscevo nessuno, come potevo denunciare e a chi?», ha più volte ripetuto.
Potrebbe essere l’inizio di una nuova storia per Prato? Yan è stato molto coraggioso. «Quando ha raccontato la verità non sapeva neppure che per lui era pronto un permesso di soggiorno come previsto dalla legge – spiega l’assessore Giorgio Silli – ed è stato il primo in assoluto a verbalizzare dettagliatamente e senza reticenze, la situazione di sfruttamento. E per questo è stato scomunicato dalla sua gente, ma per fortuna si è fidato di me».
Chi abbia dato la forza a quell’uomo con bruciature sul corpo di secondo e terzo grado, resta ancora un mistero. Chi lo sta seguendo dice che da quelle ferite, per le quali ha dovuto affrontare tre interventi chirurgici, è quasi guarito. Resta il solco profondo nell’anima per una schiavitù terribile. Ma Yan adesso si sente forte e coraggioso. E ha iniziato a parlare anche un po’ in italiano.